Ogni
anno nel cammino formativo si fa un’esperienza spirituale più intensa del
solito: l’eremo francescano. Esso appartiene al nostro carisma: lo stesso s.
Francesco, infatti, si ritirava per periodi più o meno lunghi in luoghi di
solitudine e di silenzio, per immergersi nel mistero di Dio. Francesco, il grande
annunciatore del Vangelo, l’instancabile viaggiatore e predicatore della
conversione all’amore del Padre, cercava e si riservava tempi di distacco per
ascoltare, pregare e rispondere alla parola di Dio con la sua vita.
Anch’io
ho fatto quest’esperienza nel piccolo santuario della Madonna dei Tre Fossi, sulle colline umbre. Sono stati cinque
giorni intensi sia a livello spirituale che esistenziale, di fede e di fiducia vissuti
nella presenza del Signore, nella solitudine e nel silenzio, insieme con tre
fratelli, perché le vita contemplativa del francescano è sempre una vita di
comunione concreta. Non si “esce” dal mondo, ma si “entra” nel mondo e nel suo
mistero, attraverso un stare insieme davanti a Dio.
Il
primo giorno è servito per una sistemazione semplice della casa e per mettersi
d’accordo sui turni dei giorni seguenti. Fin dall’inizio si è deciso in maniera
democratica… non da soli!
I
giorni seguenti sono stati scanditi dalla preghiera liturgica, della
celebrazione della Messa, dai pasti comuni e sobri, dalle preghiera personale, dalle
passeggiate sulle colline immerse nel paesaggio meraviglioso dell‘Umbria. Tutto
ha avuto un suo ritmo regolare, che ha favorito il cammino personale di fede
con Dio. Non abbiamo fatto “esercizi spirituali” durante questo tempo, ma
piuttosto un’esperienza forte con se stessi, con gli altri e con Dio. Ciascuno
si trovava ad un certo punto del proprio cammino spirituale e, quindi, ha
cercato di chiarire, di approfondire, di discernere, di meditare anche sulle
difficoltà personali. Niente viene escluso da quest’esperienza, o meglio, tutto
è compreso: le angosce, le gioie, i dubbi e le certezze. Tutto viene vissuto
con maggiore intensità, ma nella fede. Non si va nella solitudine per staccarsi
dalla vita e dai suoi problemi, non si cerca il silenzio per non ascoltare le
inquietudini, non si medita per dimenticare la propria fragilità. Piuttosto, si
percepisce tutto questo con i sensi aperti e il cuore pronto ad accogliere.
Oltre
l’aspetto spirituale è stato importante anche quello umano. Nell’eremo si avverte
la mancanza di stimoli esterni – fatta eccezione, naturalmente, delle voci dei
fratelli e dei suoni della natura –; mancanza del sonno: son previste due
alzate notturne per la preghiera e l’adorazione silenziosa; mancanza di cibo: abbiamo
cucinato a turno, mangiando pasti sobrii, interrotti da un giorno di digiuno da
dopo colazione fino a cena; mancanza di libri, di contatti mediatici (non c’è
internet, facebook e altro); mancanza dell’ambiente familiare, mancanza di…
Eppure,
questo è un tempo di grande ricchezza per colui che si lascia condurre dallo
Spirito di Dio.
Si
può trovare un contatto diretto con se stessi, perché le dispersioni non ci
sono. Si impara a stare con sé, anche con la
propria miseria. Si vive nella fiducia e nella fede semplice che Dio mi
abbraccia con amore, che è veramente un Dio misericordioso. Si sta con Dio, che
non è certo facile, perché è più semplice rimanere soli con sé, con le proprie preoccupazioni,
i propri turbamenti e piaceri. Ma nell’eremo il Signore ti chiede se hai
davvero fede in Lui, e non in un’immagine fabbricata dalle paure personali, ma
un’immagine che Dio ha messo dentro di noi e che sono chiamato a scoprire: essere
figlio/figlia di Lui.
Si
impara a stare con i fratelli nelle cose quotidiane e banali. Si impara a
vivere relazioni vere e autentiche con l’altro, a guardarlo non secondo gli
schemi mentali condizionati dai soliti ritmi settimanali, ma con gli occhi
della fede. Si tratta di una vera e propria sfida, perché nello spazio
fisicamente limitato dell’eremo si vedono le imperfezioni, la mancanze, le
debolezze dell’altro. Ma proprio qui giunge l’ora della fede, l’ora di vedere
oltre ciò che manca per accogliere quel di più che c’è ma che è nascosto dal
tram tram quotidiano dei giorni. I pochi momenti condivisi sono stati carichi
di significato, di vita vissuta. Preparare i pasti (provando a fare un buon
caffè!), lavare i piatti, fare le pulizie, scherzare, ascoltare, trovarsi in
cappella per la preghiera, stare di notte davanti a Dio e per Dio: tutto è
diventato un evento di comunione nella fede.
Infine,
si è gustato la gioia di stare immersi nella natura, affinché possiamo entrare
in comunione con lui anche per mezzo della creazione. Ciascuno ha potuto fare
delle passeggiate sulle colline, contemplare la bellezza delle foglie con i
colori dell’autunno, il fascino del paesaggio; ognuno di noi ha potuto
ascoltare al silenzio che regna nella natura e rendere grazie per questo dono
del Creatore.
Un
ultimo aspetto che mi piace condividere ha un carattere più etico e caritativo.
Nell’eremo si riscopre l’arte di amare e avere misericordia, con se stessi e
con i fratelli. L’esperienza della solitudine, del silenzio e del nascondimento
non è concepito per stare da soli e trattenere le cose e i doni ricevuti per sé,
ma per condividere. La comunione con Dio, con me, con gli altri e con la natura
provocano a uscire da sé, a credere che donando non si perde la vita, ma si
riceve una qualità di vita “diversa”. E se proprio si perde qualcosa sono solo
le paure e le resistenze personali!
Questa
qualità “diversa” di vita che si può sperimentare non è fatta di grandi gesti,
ma di segni piccoli e discreti: un sorriso; una parola di incoraggiamento; un
servizio umile (non umiliante); un consiglio; una preghiera non solo per il
vicino ma anche per quelli “lontani”: parenti, amici, persone senza speranza e
senza fede; un atteggiamento di ascolto, non di pretesa né di giudizio.
Insomma, gesti semplici, come può essere preparare un caffè con attenzione e
amore dopo pranzo, ma che può diventare anche un’occasione di “contemplazione”,
perché chi si emerge nella vita di Dio in Cristo è spinto a donare l’amore
ricevuto. L’eremo diventa così anche una scuola di carità, una scuola per
imparare a voler bene l’altro, senza interessi e gratuitamente.
Per
questo l’esperienza dell’eremo francescano è una esperienza di fede, perché
chiede capacità di ascolto e di stare davanti a Dio, il ché non è facile (come la
preghiera e la contemplazione), chiede la capacità di stare da soli (una
capacità che l’uomo contemporaneo ha perduto), chiede il gusto delle cose,
della natura, del dono del fratello e dei beni della terra (e non un’ascesi
spiritualistica e individualistica), chiede il desiderio di lasciarsi amare e
amare senza ricompense, che è la mèta del cammino cristiano, specialmente per il
consacrato.
Che
cosa porto via dall’eremo nel cammino quotidiano della mia vocazione? Anzitutto,
la consapevolezza che sono nelle mani di Dio come suo figlio e per questo
libero ad amare.
A
questo punto, forse non è proprio “francescano” citare una sorella carmelitana
alla fine della mia testimonianza, ma Edith Stein, santa Teresa Benedetta dalla
croce, sintetizza molto bene il mio vissuto quando scrive in una meditazione:
«Figlio di Dio significa mettersi
nella mani di Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, deporre nella mano
di Dio tutte le preoccupazioni e le speranze, non stare più in pena per il
proprio avvenire. Qui è il fondamento della libertà e della gioia dei figli di
Dio posseduta da ben pochi» (E.
Stein, Il mistero di Natale, in «Rivista
di vita spirituale» 6/1987).
Per
questo motivo auguro a tutti un Avvento ricco di attesa spirituale. La Luce
della santa notte porti gioia e pace alle notti oscure della nostra vita.
fra Frank-Ignazio